Eccoci nei primi giorni del secondo mese dell’anno al “febbraio febbraietto mese corto e maledetto” come recitava una filastrocca giunta da lontane reminiscenze scolastiche che, indubbiamente, traeva origine dal mondo contadino che ben conosceva quanto accadeva alla propria vita allacciata ai ritmi della natura, ma senza porsi troppe domande. Era così e tanto bastava.
L’inizio di un nuovo anno è per tutti un tempo che ci vede più attenti al trascorrere dei giorni e impegnati a considerare quanto dei nostri progetti e desideri siamo riusciti a realizzare. Li passiamo rapidamente in rassegna, li ri-esaminiamo, ne pianifichiamo di nuovi e, se la vita non ci ha troppo feriti o delusi - o anche nonostante questo - ricominciamo ad attendere il loro compimento, con speranza e rinnovata fiducia. La speranza, in particolare, è un generatore potente di energia, ci fa sentire possibile ciò che desideriamo e diventa una preziosa alleata nel cammino verso le mete che ci proponiamo. Ma può ancora sostenerci in questi tempi difficili, in cui il succedersi delle diverse ondate della pandemia non ci lascia ancora intravederne la fine, e il sommarsi di problemi sempre più complessi, riguardanti la sanità, il lavoro, la scuola, l’ambiente, continua ad addensare nuvole oscure sul nostro futuro? La risposta è: sì, certamente!
Ripartire è la parola chiave echeggiata da più parti, nei giorni spalancati al nuovo anno, e che mi ha suggerito di parafrasare la citazione “partire è un po' morire” posta non certo come provocazione, ma semplicemente come associazione a un consueto modo di dire.
Vorrei rendervi partecipi di una mia grande passione: quella per Valentino Rossi che il 14 novembre scorso ha corso la sua ultima gara. Ho deciso di dedicargli, a mio modo e nel mio piccolo, delle riflessioni come fossero un ringraziamento per tutti questi anni nei quali Valentino, eterno ragazzino, ha regalato emozioni e semplici grandi lezioni di vita. Il dottore e la sua medicina: The Doctor, Non a caso.
“Se potessi tornare indietro che cosa cambieresti della tua vita?” Mi piacerebbe pormi questa domanda con la certezza di potermi rispondere: “no, non cambierei nulla”, che rifarei le stesse scelte, ripeterei gli stessi errori, incontrerei le stesse persone, e invece, immancabilmente, qualcosa la cambierei, qualcosa che crea quel rimpianto verso un passato che ‘meschinamente’ si sottrae alla nostra vita, per ricordarci ‘forse’ quello che non potremmo più fare.
Tante sono le immagini a cui possiamo accostare le parole che usiamo ogni giorno per comunicare, per far giungere agli altri informazioni, opinioni, esperienze personali. La disponibilità odierna di molteplici mezzi espressivi alla portata di tutti, lascia via libera a chiunque di diffondere la propria voce, formulare pensieri, esternare emozioni. Ma spesso, come purtroppo accade, non con la dovuta accortezza nell’usare in modo appropriato e sorvegliato il linguaggio, e trascurando di considerarne i diversi effetti sui destinatari.
Pensando alla nota canzone di Sergio Endrigo: “Le cose d'ogni giorno, raccontano segreti a chi le sa guardare ed ascoltare. Per fare un tavolo ci vuole il legno. Per fare il legno ci vuole l'albero. Per fare l'albero ci vuole il seme...” mi è tornato in mente un episodio di quando appena sedicenne compresi involontariamente le differenze tra parlare e comunicare.
Ho ascoltato una relazione del prof. Recalcati sul ruolo del padre nella famiglia e nella società di oggi. Recalcati cita Lacan che parla di “evaporazione del padre”. Questa espressione mi ha fatto riflettere sulla situazione generale dell’essere umano, sulla sua capacità o incapacità di adattarsi, acclimatarsi, modificarsi in relazione agli eventi dell’esistenza. Non voglio entrare qui nella discussione della legittimità del cambiamento, ma ne voglio cogliere l’essenza affidandomi al linguaggio della chimica e della fisica.
Vi è mai capitato di sentirvi dire “non devi pensare?” e non mi riferisco al senso bonario con cui qualcuno intende aiutarci a stare meglio, provando a farci distrarre da pensieri spiacevoli, intendo quel modo superficiale in cui si viene apostrofati come una persona “che pensa troppo” e quindi che “si complica la vita” inutilmente. “Cogito ergo sum” ossia “penso dunque sono” di cartesiana memoria non va più di moda e oggi forse non se ne meravigliano più neanche i filologi, intenti oltre che sulle ‘sudate carte’ a gestire il ‘fare’ che procurano gli interventi social.
Parole come semi, parole al vento, parole come segni, parole del momento, parole come sensi, parole senza tempo. Chi, come me, subisce da sempre il fascino della parola e più che mai la suggestione della parola scritta, ha anche molto amato il senso del profondo, quell’andare, al netto dei suoni, alla radice delle cose, che il segno e il suono hanno il potere di evocare.
Nel mese della semina si affollano pensieri, immagini, profumi, colori, e un’idea fiduciosa, quasi una certezza di futuro: si raccoglierà. Chissà perché mi viene subito in mente un proverbio: “chi semina vento raccoglie tempesta”, derivato dal profeta Osea che al versetto 8,7 recita: “E poiché hanno seminato vento raccoglieranno tempesta” riferendosi alla cattiva condotta degli Ebrei, idolatria e corruzione, che li avrebbe condotti alla catastrofe.
Vorrei partire con questa mia divagazione sul tema della Natura dall’ultimo libro che ho letto: si tratta di un romanzo che fa parte della collana “La grande letteratura giapponese” nel progetto Le opere del Corriere della Sera. Si intitola “Un bosco di pecore e acciaio “ di Miyashita Natsu.
“Anche nei piccoli centri urbani del Salento, come nel resto d’Italia, si colgono, da qualche mese, segnali più o meno visibili di ripartenza. Attività per lungo tempo sospese per le restrizioni imposte dalla pandemia vengono nuovamente riprese. Si riaprono cantieri, si riparte, si ricomincia a progettare, costruire, allestire. Le strade e i luoghi specificamente destinati alla vita sociale tornano pian piano a “riaccendersi”. E a sorprenderci…”
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