È questa la seconda incursione fotografica di Mauro Ragosta nel nostro Giornale. Questa volta ricorre al suo archivio, proponendo uno scatto realizzato a Otranto nel maggio del 1987, e che sin dalla sua prima esposizione ha riscosso un certo consenso. Si sa, Ragosta per le sue attività fotografiche di taglio più creativo e artistico, non si è esposto mai con decisione al di là della sua Terra d’origine: tutte le volte che lo ha fatto, in qualche misura si è trovato costretto, in situazioni quasi imposte.
La fotografia per il nostro Mauro, infatti, è questione intima, esclusiva …riservata, forse perché l’ambito dell’immagine è per lui un cantiere sempre aperto e dalle mille funzioni. A ciò fanno eccezione i suoi calendari, che però sono un’attività e un argomento che risalgono al 2020. Sono questioni che, quale ricerca interiore e di relazione con la sua Lecce e tutto il Salento, rimandano a circa trent’anni fa e che si sono chiuse -almeno così sembra!- in questi ultimi anni, probabilmente quelli in cui il suo rapporto con la sua Terra e le sue radici s’è risolto o presenta caratteri stabili e forse definitivi.
Lo “scatto” che qui propone si titola “amanti”. La prima cosa che balza all’occhio in questa immagine è che tutto il contesto è fermo, mentre solo gli “amanti” sono in movimento, “mossi” insomma. Due le possibili interpretazioni di questa foto: una statica e l’altra dinamica.
Nel primo caso, gli amanti rappresentano l’amore, che può esservi solo in una prospettiva del “ritorno”, magari alle Origini, quella che richiede purezza non contaminata dal pensiero e dunque dalla Ragione. Insomma, l’amore non ha a che vedere con la Civiltà, pur generandola: “…bisogna scendere le scale!”.
Nella seconda ipotesi, quella dinamica, gli amanti scendono le scale per trovare l’amore, possibile solo nella prospettiva della ricerca dell’Originario, nella prospettiva non contaminata dalla Cultura, per poi risalirle e tornate nell’ordinario, nella vita di tutti i giorni, nella Contemporaneità dunque.
Per Ragosta, forse l’amore, nella sua accezione più alta, è mancante di tutte le componenti prescrittive, precettizie, utopiche, culturali, dunque, ascendendo a qualcosa di atavico e misterioso e, forse, anche magico, in un quadro di fusione e confusione, informe, possibile solo sbarazzandosi delle regole e dunque della Civiltà nel suo insieme. È quindi, per Ragosta questa la dimensione, l’unica cosa che muove la Vita o in movimento nella Vita? Il motore primo? Un motore che gira nella fissità delle cose?
Rosanna Gobetti