Le pittule e la serendipity - di Monia Politi

Le pittule e la serendipity - di Monia Politi

Chi è salentino, ma ormai anche chi non lo è, sa di cosa parliamo quando diciamo “pittule” o “pettole”. Si tratta di piccole sfere di pasta lievitata molto morbida fritte in olio bollente che da qualche anno sono state inserite nell’elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali (Pat) riconosciuti dal “Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali”.

     Mi son chiesta chi ha inventato questo piatto, chi ha tuffato, per la prima volta nella storia, i pezzetti di pasta lievitata nell’olio? Spinta dalla curiosità, ho condotto qualche ricerca e ho scoperto che la loro origine è pressoché sconosciuta.

     Secondo la leggenda, le pettole nascono a Taranto, dove una donna, durante la notte di Santa Cecilia, precisamente il 22 novembre, lasciò lievitare troppo a lungo il pane perché distratta dalla musica degli zampognari (probabilmente dei pastori transumanti Abruzzesi) che suonavano, per tradizione, tra le vie della città vecchia. La donna, catturata dal suono di quelle note, si allontanò da casa e dopo avervi fatto ritorno, si accorse che l’impasto non poteva più essere utilizzato per la “panificazione”. Lo ridusse, così, in palline che tuffate nell’olio bollente, si gonfiarono e si dorarono. I suoi figli apprezzarono la nuova ricetta e le chiesero come si chiamasse. “Pèttele”, rispose la madre, che significa “palline”, o “cuscini”.

     Dunque, in base a questo racconto pare proprio che le pettole o pittule siano nate per errore, da una distrazione che in questa circostanza è stata provvidenziale.La massaia salentina ha, così, per caso abbandonato la strada maestra della panificazione sconfinando in una pasta fermentata che, non volendola   gettare, è diventata altro, aprendo, in tal modo, un nuovo capitolo nelle preparazioni culinarie. Sicuramente quella donna non aveva idea, quando friggeva le prime pittule, di quale rivoluzione stesse innescando nella storia dei prodotti lievitati! Ed ora è doveroso un breve inciso riguardante la chimica: perché l’impasto della nostra donna tarantina non poteva essere utilizzato per fare il pane?

    La farina, oltre che amido, contiene anche proteine e in base al contenuto di esse si misura la sua “forza”. Due di queste proteine, la gliadina e la glutenina, sono fondamentali per la lievitazione. Durante la lavorazione dell’impasto, a contatto con l’acqua, si modificano e interagiscono per formare un reticolo che prende il nome di glutine. La formazione del glutine è fondamentale per la lievitazione, esso è infatti la struttura attraverso la quale l’anidride carbonica prodotta dai lieviti sarà trattenuta nell’impasto determinandone l’aumento di volume.

    Quando la lievitazione viene protratta più del necessario, l’impasto si gonfia eccessivamente e la “maglia glutinica” comincia a rompersi, perdendo così la capacità di trattenere i gas.

     E torniamo alle pittule: la leggenda sulla loro origine, se ci pensiamo bene, assume una portata inimmaginabile: ci insegna che l’errore poi non è così male, è l’aprirsi di una alternativa che non avevamo valutato, perché imbrigliati nella routine, è il nuovo che piomba nella quotidianità e la scardina e inventa per noi punti di vista diversi. Quanti esempi nella storia dell’evoluzione umana dimostrano che il progresso avviene solo se ad un certo punto qualcuno abbandona la “via conosciuta” e si avventura per caso su un sentiero laterale, non ancora ben illuminato!

    Gli anglosassoni hanno addirittura coniato una parola per indicare il ruolo giocato dal caso nelle scoperte scientifiche: serendipity (tradotto “serendipità”). Il termine ha antiche origini: fu coniato in pieno Illuminismo, nel 1754, da uno scrittore inglese, Horace Walpole e si riferisce ai tre protagonisti della fiaba “I tre principi di Serendippo” i quali trovavano di continuo oggetti che non stavano cercando. Indica l’arte di trovare una cosa non voluta e imprevista mentre se ne sta cercando un’altra, come è accaduto alla nostra massaia tarantina.

    La scienza, e in particolare i laboratori chimici, è piena di scoperte nate da un errore: uno degli episodi più noti di serendipity è senz’altro la scoperta della Penicellina da parte di Fleming,  ma…  ve la racconto un’altra volta, perché non voglio perdere di vista la cucina e le nostre pittule. In passato venivano mangiate solamente una volta all’anno, generalmente a Natale, e addirittura venivano date anche agli animali: la leggenda narra che questi potessero parlare con gli angeli solo il 25 dicembre e, riferendo del buon pasto ricevuto dai padroni, avrebbero propiziato per questi una maggiore protezione divina.

    Oggi le pittule si consumano tutto l’anno, in purezza oppure farcite con rape ‘nfucate, peperoni, cavolfiore bollito oppure, nel periodo dell’Avvento, con baccalà o borragine. Buonissime sono anche le pittule alla pizzaiola, con impasto arricchito di olive verdi e nere, capperi, origano e pomodoro. Gli amanti del dolce potranno poi gustarle cosparse di zucchero, miele o vincotto d’uva o di fichi. In passato, quando lo zucchero era prezioso, si potevano preparare anche usando nell’impasto le patate dolci, quelle che in salentino si chiamano “batane”.

     Preparare le pittule è semplicissimo, così come sono semplici gli ingredienti necessari: farina, lievito di birra, acqua, sale e olio, gli stessi del “pane sbagliato” della nostra massaia tarantina. Il segreto per ottenere pittule croccanti fuori e morbide dentro è la lavorazione dell’impasto: le donne salentine lo lavoravano nella bacinella di terracotta (tajèddha te pasta spitterrata) come la definisce il poeta Pippi Toma nella sua poesia “A’ pittula”, a mano per lungo tempo, lo sbattevano energicamente fino a ottenere un impasto liscio e abbastanza colloso, poi lo coprivano con un canovaccio di cotone lasciandolo lievitare a lungo. A questo punto lo riprendevano e lo lavoravano velocemente a mano, pronte per la frittura.

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    La forma delle pittule da friggere nell’olio caldo avveniva afferrando un po' di pasta con la mano sinistra, stringendola in pugno, e la mano destra, che doveva essere ogni volta bagnata, afferrava la pallina che veniva fuori dalla mano sinistra. Oggi, più facilmente, si usa il cucchiaio. Penso che a questo punto abbiate, come me, l’acquolina in bocca;  per questo vi lascio la ricetta di questo piatto saporito. Buona preparazione!

Ingredienti:

375 ml di acqua (rigorosamente tiepida)

500 gr di farina

1/2 cucchiaio di sale

6  gr di lievito di birra

Olio per friggere

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