Uno, nessuno o centomila like? - di Matteo Gentile

Uno, nessuno o centomila like? - di Matteo Gentile

          Esiste in ambito sociologico e antropologico un numero, detto di Dumbar, con cui viene teorizzata le quantità di persone con le quali un individuo è in grado di mantenere relazioni sociali stabili. Questo numero fu introdotto per la prima volta dall’antropologo inglese Dumbar, da cui prende il nome, e ha un fondamento legato principalmente alle dimensioni fisiche dell’encefalo dei primati sui quali il ricercatore eseguì i propri studi. Il numero di Dunbar oscilla da 100 a 250, e si tende a considerare mediamente che 150 siano le relazioni nelle quali un individuo possa conoscere l'identità di ciascuna persona con cui interagisce attivamente e con le quali sia in grado di relazionarsi con cognizione di causa. Non semplici conoscenti, quindi, ma soprattutto persone che formano una vera e propria rete sociale.

       Se rapportato ai social media, questo numero verrebbe considerato davvero esiguo, soprattutto in considerazione del fatto che un utente social che abbia così pochi “amici” o “follower”, che dir si voglia, verrebbe considerato “poco social”, appunto. L’avvento dei social media, in effetti, che hanno letteralmente invaso la vita quotidiana della maggior parte della società tecnologicamente più evoluta, e non solo, rischiano di distorcere notevolmente la percezione della realtà. Se da un lato rappresentano un potente strumento per raggiungere un numero elevato di persone, situazioni, eventi e informazioni, dall’altro rischiano di creare una dipendenza tanto pericolosa quanto altri tipi che la società moderna presenta.

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          In realtà, è stata già diagnosticata e teorizzata una sorta di patologia psicologica del tutto nuova, la cosiddetta “sindrome da vibrazione fantasma”, una specie di allucinazione tattile per la quale viene percepita la vibrazione o lo squillo del telefono cellulare anche se questa non è realmente presente. In realtà è una percezione provocata dall’ansia di ricevere una notifica o una chiamata, esasperata nella cosiddetta attesa della “spunta blu” sull’applicazione di messaggistica più diffusa al mondo. L’impatto che hanno avuto i social, nell’ultimo decennio, ha portato le persone ad utilizzarli fino a 5 ore al giorno, in media, circostanza, questa, che può anche causare una perdita del lavoro, del partner e degli amici.

           Al contrario, secondo uno studio, svolto dall’Università di Melbourne, un uso moderato del tempo speso al giorno su un social network, circa 2 ore, può invece portare ad un aumento della produttività lavorativa, ma il superamento di tale soglia genera un disturbo di dipendenza da internet, che ha un impatto sulle relazioni sociali. Con disturbo di dipendenza da internet, secondo il termine ideato dallo psicologo americano Ivan Goldberg, si identifica quindi un nuovo disturbo psico-fisiologico, caratterizzato da una quantità di ore spese davanti al computer, perdita delle relazioni sociali, modifica dell’umore, alterazione del vissuto temporale e utilizzo compulsivo del mezzo. Al tutto si aggiunge una diversa percezione del tempo. Il fatto che l’attesa del piacere sia essa stessa il piacere, coniata dal drammaturgo inglese Gotthold Ephraim Lessig e più volte ripresa nel corso del tempo, e non solo dalla letteratura, non sembra ormai più essere valida.

         L’attesa è, paradossalmente, un lusso che la società frenetica e famelica non vuole più concedersi. Frenetica perché il tempo sembra non bastare mai (anche perché molto di esso è speso sui social, come si diceva), e lo si vuole riempire fino all’inverosimile con attività che dimostrino al mondo quanto si sia felici; famelica perché è sempre alla ricerca di consensi, approvazione, ammirazione e, perché no, invidia da parte degli altri, per apparire belli, fighi e desiderabili. Come accade in un episodio di una serie televisiva, distopica ma non troppo, si va alla caccia di “like” e condivisioni per salire nella scala della credibilità sociale. Se nella puntata in questione di “Black Mirror” ottenere “stelline” (equivalenti ai like) per aspirare a un lavoro migliore, a una casa più bella, a una posizione sociale invidiabile, era lo scopo perseguito dai personaggi, quanto simile è in realtà la vita di chi insegue un like “a tutti i costi”?

         Siamo qui a scrivere e condividere questo pensiero su una testata online e su un social network, quindi siamo noi stessi fruitori e produttori di contenuti che in esso viaggiano e si diffondo, quindi non possiamo demonizzare lo strumento che noi stessi stiamo utilizzando proprio in questo momento. Tuttavia ci sentiamo di osservare che, accanto a un suo utilizzo certamente utile, proficuo, ma anche come semplice intrattenimento, ci sia il rischio che lo strumento possa prenderci la mano.

         Anche il Testo Unico delle Leggi della Pubblica Sicurezza vieta, di fatto, o comunque limita, l’uso improprio di strumenti normalmente adibiti a scopi pratici e utili. Si pensi, per esempio, al classico esempio del martello o del cacciavite. Strumenti molto utili nei lavori in cui sono normalmente usati, ma che possono diventare armi anche letali se utilizzate impropriamente. Paradossalmente, non c’è alcuna limitazione all’uso dei social network, che entrano prepotentemente nella vita quotidiana di ognuno, fin dalla più tenera età, purtroppo, andando spesso a sostituire gli educatori, i compagni di gioco, gli amici o anche i semplici conoscenti. Alimentando a volte idee e concetti che, se in molti casi possono essere frutto di buonafede o di poca conoscenza di un determinato argomento, in altri possono divenire strumenti di manipolazione per indurre, nella migliore delle ipotesi, all’acquisto di beni di cui potremmo facilmente fare a meno o che potrebbero anche essere del tutto inutili.

       La società liquida di cui parlava Baumann ormai è realtà: tutto è precario, instabile e privo di punti di riferimento consolidati. Basta un nuovo hashtag, una nuova tendenza, o “trend”, per dirla in linguaggio da social, ed ecco che l’attenzione e l’interesse si spostano verso un nuovo obiettivo, a volte futile, spesso fuorviante dai fabbisogni reali dell’esistenza. Anche la differenza sostanziale tra essere e avere, che Fromm teorizzava alla fine del secolo scorso per supportare la cosiddetta “psicologia positiva”, sembra poter essere soppiantata dal pensiero collettivo dell’omologazione: la ricerca della felicità, da bisogno primordiale e da scelta individuale e consapevole, diventa un’apparenza fatta di selfie, citazioni più o meno colte, parvenza di stati d’animo che nascondono il malessere di sentirsi, al contrario, inadeguati.  “Io” non sono più “io”, ma quello che gli altri vogliono, o comunque si cerca assolutamente di apparire così come gli altri vogliono che noi siamo per dimostrare il fatto di essere ricchi, felici e pienamente soddisfatti.

        Oggi si ha la possibilità di connettersi con tutto il mondo in tempo reale, si ha l’accesso a un’infinità di informazioni, nelle quali spesso ci si perde, ma si corre il forte e non tanto remoto rischio di perdere sé stessi e la propria individualità. C’è la possibilità che ognuno di noi, da essere una monade, nella quale Leibniz identificava una forza unica e irripetibile che non può essere influenzata da elementi esterni, diventi al contrario una semplice particella di creta, malleabile dalle circostanze e dal sentire comune. Portandoci inevitabilmente al relativismo etico, che considera i valori morali validi non più “in assoluto” ma “variabili” in funzione dei cambiamenti politici, sociali ed economici che si verificano all’interno di una società. Anche e non solo attraverso i social media.

Matteo Gentile

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