Il nucleare "buono" – Camilla Russo

Il nucleare "buono" – Camilla Russo

          Dopo la nascita delle armi nucleari, dagli anni '50, si avviò la costruzione delle centrali elettronucleari, ovvero per la produzione di energia. È quello che si può definire il nucleare "buono", perché non ha nessuno scopo bellico, ma ha solo un utilizzo civile.

          È però un dato di fatto che l'energia atomica abbia una potenzialità disastrosa a prescindere dall'uso che se ne fa. Sappiamo bene, che il 1986, fu l'anno del disastro nucleare di Chernobyl, in Ucraina, e che quest' evento, dopo la paura e lo sgomento, generò indignazione, oltre alla necessità di sottoscrivere delle regole più ferree sull’utilizzo dell’energia atomica.

          A tal proposito, nel 1989, venne creata e inaugurata a Mosca la WANO (World Association of Nuclear Operators), un ente avente il compito di effettuare la revisione dei reattori presenti ed attivi all'epoca. Oggi, infatti, è sufficiente utilizzare un qualsiasi browser per navigare sul sito di questa associazione, ancora attiva, rappresentante di oltre 130 operatori, occupati a condividere informazioni sui reattori nucleari civili sparsi nel Mondo, per la sicurezza, l’affidabilità e le migliori prestazioni.

          Ma analizziamo dapprima la situazione vicina a noi. Sebbene le risorse di cui si discute maggiormente siano il petrolio, il carbone e le energie rinnovabili, secondo l’Eni le centrali nucleari producono ad oggi circa un terzo dell'elettricità e un settimo dell'energia totale utilizzata nell'intera Unione Europea. Forse, in Italia, l'argomento è passato in secondo piano, o anzi in terzo e in quarto, dopo il referendum del 1987 e la definitiva chiusura dei nostri quattro reattori nucleari. E dove erano? Uno di essi era a Borgo Sabotino, frazione di Latina. Fu il primo ad essere costruito in Italia, nel 1958, e negli anni di attività produsse 26 miliardi di chilowattora tramite un reattore nucleare Magnox (moderato a grafite e con un gas come termovettore, tipologia ormai superata), e un reattore sperimentale chiamato CIRENE, che però non fu mai avviato. L'altro era a Trino Vercellesi, in Piemonte, dove la centrale, che fu intitolata ad Enrico Fermi e venne costruita negli anni '60, funzionava tramite uranio a basso arricchimento, moderato ad acqua leggera (di tipo PWR, cioè reattore ad acqua pressurizzata). L'altro ancora a Caorso, in provincia di Piacenza (ad uranio leggermente arricchito, di tipo BWR, cioè reattore ad acqua bollente) e infine a Garigliano nel casertano (anch'esso di tipo BWR). Ve ne era una quinta ed ultima centrale, quella di Montalto di Castro nell'Alto Lazio (sempre BWR), ma non operò mai e venne utilizzata per realizzare una centrale a policombustibile. Ed ancora, lo smantellamento per tutte e quattro le centrali è stato effettuato, sebbene ancora non concluso, dalla SOGIN (Società di Gestione Impianti Nucleari), la società per azioni dello Stato italiano che gestisce la messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi e lo smantellamento degli impianti nucleari, definito internazionalmente "decommissioning".

          Dunque, l'Italia ha da molto tempo chiuso le porte al nucleare, con i referendum del 1987 e del 2011, tre mesi dopo la catastrofe di Fukushima, in Giappone. Nonostante la rinuncia ad avere centrali nostrane, l'Italia importa però una parte di energia elettrica dall'estero, circa il 15% di quella totale. L’Italia si approvvigiona, poi, in particolare dalla Svizzera e dalla Francia, con cui vi sono interconnessioni avanzate e strategiche, come la linea HVCD lunga 190 km, in progettazione, che dovrebbe collegare Piossasco, in Piemonte, con la stazione elettrica di Grande Ile, in Savoia. L'Italia senza centrali risulta essere così il più grande importatore di energia elettrica del mondo, oltre ad essere l'unico paese del G8 a non avere fonti nucleari. Oltre a non avere fonti di questo tipo, il nostro Paese è sicuramente una nazione ormai senza tecnici o studiosi di energia nucleare civile. Aspetto contraddittorio, se si pensa che le menti delle prime importanti scoperte in questo campo siano state proprio italiane. Ma le centrali presenti sul territorio sono ormai obsolete, impossibili da riattivare, anche se si decidesse di farlo, e il cui smantellamento continua ad essere costosissimo! Per la sola centrale di Caorso, ad esempio, si sono spesi 450 milioni di Euro per lo smantellamento e 300 milioni di Euro per il riprocessamento del combustibile.

          Gli altri paesi a noi vicini hanno invece seguito, negli anni, filosofie molto diverse. La Francia è noto che disponga di una produzione nucleare molto elevata. Nel 2019 si sono contate 19 centrali elettronucleari francesi, che utilizzano 58 reattori di tipo PWR, e soddisfano il 75% del bisogno di energia elettrica. Seguono la Russia, che ha 36 impianti nucleari, l’Ucraina e la Gran Bretagna con 15, la Svezia con 10, la Germania con 8, la Spagna e il Belgio con 7, la Repubblica Ceca con 6, la Svizzera con 5, la Finlandia, l’Ungheria e la Slovacchia con 4, la Bulgaria e la Romania con 2, ed infine la Slovenia e l’Olanda con un solo impianto. Tutte le centrali europee sommate producono 119 miliardi di Watt. Una buona parte è data dai paesi extra-UE, cioè da Russia, Ucraina e Svizzera, che coprono il 17% del fabbisogno elettrico, mentre la Gran Bretagna con la Brexit ne porterà via il 7%.

          Valutando poi su larga scala, nel Mondo vi sono in tutto 442 reattori attivi in 29 paesi. Il contributo maggiore è dato dal Nord America, con 114 reattori, poi l'Estremo Oriente che ne ha 109, il Medio Oriente 28 e l'Europa 180. Il grafico che segue dà un'idea della situazione mondiale (Fonte: Pris-Iaea).

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          In sostanza, comunque, l'energia nucleare, grazie all'aumento della sicurezza e delle nuove norme negli ultimi decenni, si è dimostrata essere sicura, economicamente vantaggiosa e a basso impatto ambientale (catastrofi escluse), ed ottima per sostituire il combustibile che scarseggia. Sono però vari i fattori che ostacolano la creazione e l'utilizzo di questa fonte energetica, che delineano la situazione attuale. Il primo fattore è ovviamente quello geopolitico, che comprende il rischio di utilizzo improprio e militare delle centrali, coma la sicurezza in caso di attacchi terroristici. A seguire, vengono fattori quali gli interessi locali e aziendali collegati all'economia dei vari Paesi. Ed in ultimo, ma non meno importante, quello della "psicologia del pubblico", cioè la complessa percezione che la popolazione ha del pericolo. È infatti un fenomeno diffuso nelle comunità locali quello di non volere opere di impatto rilevante, in questo caso appunto centrali nucleari o depositi di scorie, in luoghi vicini ad agglomerati urbani e zone abitate. Un fenomeno, oggigiorno, meglio conosciuto come "Not in My BackYard", tradotto come "Non nel mio cortile".

          E proprio quello slogan e quel concetto probabilmente hanno mosso l'Italia in passato, quando ha rinunciato ad avere centrali nucleari in casa propria. Ma alla base di tale rifiuto, all'epoca, vi erano ragioni di altro genere. Si ritenne, infatti, che il territorio italiano fosse in gran parte a rischio sismico e le coste facilmente sommergibili. Ed ancora, che il Paese non disponesse di uranio a sufficienza, che i costi per i cittadini non sarebbero diminuiti, che la criminalità organizzata e la politica corrotta, sempre presenti, avrebbero creato problemi con la sicurezza e con la gestione del denaro. O il fatto che si avessero già molti problemi a smaltire i normali rifiuti e quindi conseguentemente ci sarebbe stata un'incapacità nel gestire le scorie radioattive.

          Insomma, più che il nucleare in sé, il problema sembrerebbe essere l'Italia, che gestisce il nucleare. Quindi, per ora ce ne siamo lavati le mani. Rimane, però, da pensare che nel raggio di 200 km dal nostro confine sono presenti ben 27 impianti, forse un po’ troppi e un po’ troppo vicini per dire che noi con il nucleare non abbiamo più nulla a che fare!

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