Afghanistan: contraddizioni su cui riflettere - di Gianmarcco Pennetta

Afghanistan: contraddizioni su cui riflettere - di Gianmarcco Pennetta

      I soldati americani che lasciano la capitale dell’Afghanistan, è l’ultima immagine di una guerra iniziata vent’anni fa, all’indomani dell’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001. Ma è la prima che sancisce conseguentemente, il fallimento di una missione che aveva l’obiettivo di catturare Osama Bin Laden, leader degli estremisti di Al Qaeda, che, con la sua uccisione avvenuta nel 2011 è sembrata a tutti una presenza ancora più assurda e ingiustificata.  A maggior ragione oggi, dopo il notevole dispendio di risorse umane prima che economiche. Risorse che potevano essere utilizzate in modo più strategico ed efficiente, a sostegno di politiche giovanili mirate all’istruzione della popolazione afghana, ad esempio, ancorché se si pensa che l’Afghanistan è ritornato ad essere un Emirato controllato militarmente dai Talebani.

    La seconda, è uno scatto che, ironia della sorte, ci riporta alla mente proprio l’11 settembre e riguarda un ragazzo di 15 anni, un aspirante calciatore, che aveva rivolto le proprie speranza di poter continuare a vivere il suo sogno alle ruote dell’aereo che lo avrebbe portato via di lì, ma che invece è finito per catapultarlo nel vuoto del cielo di Kabul, uccidendolo.

    Difficile a questo proposito non ricordare “l’uomo volante” che scelse di saltare da uno delle centinaia di piani del Word Trade Center in fiamme. E da qui sempre più immagini di tristezza, sgomento e terrore. Terrore che pervade gli occhi e annoda lo stomaco di chi non vuole abbandonarsi a questa ennesimo martirio.

   Nulla sembra essere cambiato alla fine del ventennale sostegno americano, nessun miglioramento, nessuna democrazia esportata, ma Joe Biden si difende dicendo di aver dato seguito agli accordi di Doha siglati nel febbraio 2021 dall’allora Presidente Usa, Donald Trump, con il leader dei Talebani Abdul Ghani Baradar, con i quali si sanciva il ritiro delle truppe americane dal Paese in cambio di garanzie di sicurezza da parte dei militanti.

    Certamente la situazione non lascia indifferenti, l’avanzata estremista sembra essere militare ed è impensabile che una missione di tale portata si possa definire terminata riconsegnando le armi a chi doveva essere allontanato.

   L’Occidente ha ripetuto l’errore di pensare che la “sua” democrazia vada bene per tutti e peggio, che sia l’unica necessaria.  Così, l’Occidente resta il principale responsabile dell’attuale situazione perché è arrivato a Kabul cercando di democratizzare un Paese che ha poi abbandonato, lasciando nell’illusione milioni di giovani donne che avevano creduto in un futuro migliore.

   Tutto questo non può far non ripensare alle parole di Nana che nel libro di Khaled Hosseini “Mille splendidi soli” spesso pronuncia alla figlia quindicenne Mariam “a ricordo di come soffrono le donne come noi”.

    È a quel libro, pubblicato nel 2007, e sembra ieri, che si deve prendere in considerazione, spesso in questi giorni turbolenti. All’inevitabile salto nel passato che i popoli afghani subiranno mettendo fine soprattutto ai sogni e alla vita di ragazze come la protagonista del libro dello scrittore statunitense di origine afghana.

   Sono donne obbligate a sposare uomini molti più grandi di loro, obbligate a rinunciare alla propria vita, e soprattutto a rinunciare ad essere semplici essere umani. Ragazze come Fatima, l’unica guida turistica donna dell’Afghanistan, studentessa universitaria di 22 anni che lavora con gli stranieri, che ama la sua terra e la racconta ai tanti che fino a ieri, avevano il desiderio di visitare la culla della cultura persiana. “I talebani uccideranno le ragazze come me” racconta a Valentina Ruggiu di Repubblica.

    E mentre la musica si spegne a Kabul, lasciando spazio alla paura del rischio attentati da parte dell’Isis nella zona dell’aeroporto, e già concretizzatosi, si spera che, passato il clamore di queste settimane, non si spengano anche le luci.

 

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